C'è ancora un pezzo di vita da scrivere
Un arcobaleno, per sorridere ancora
10/6/2020
di Simona Riva
Infermiera palliativista in RSA

Piera è ritornata da sola. Il suo Giovanni non ce l’ha fatta.

Insieme sono stati trasferiti in isolamento nel reparto covid per tre settimane, insieme hanno sofferto e lottato, ma solo lei è rientrata nella casa di riposo dove mi prendevo cura di loro prima che venissero trasferiti.

Durante la quarantena vivevano in stanze separate ma avevano ancora il permesso di avere dei brevi incontri e consumare i pasti insieme. Quando uscivo dalla stanza di Giovanni, che essendo più grande fungeva da ritrovo, ricordavo loro di tenersi a debita distanza e di rinunciare ai baci per un po’. Quest’ultima raccomandazione suscitava sempre le loro risate. “Alla nostra età cosa vuole che facciamo!” rispondeva Piera, per poi continuare a guardare la sua puntata di “Un posto al sole”, mentre Giovanni fremeva per poter cambiare canale e seguire i suoi programmi sportivi in santa pace.
Poi Giovanni ha cominciato a stare male. Una brutta febbre, alta, che lo faceva straparlare, lui che, malgrado i suoi novant’anni, era sempre stato di una gran lucidità.
L’umiliazione di perdere le urine e di ricorrere al pannolone, di essere accudito come un bimbo, mentre sino a pochi giorni prima era indipendente in tutto.

Poi l’esecuzione del tampone e l’attesa della sentenza: positivo.
D’obbligo farlo anche a Piera, anche se asintomatica. Ho sperato che fosse negativo, invece positivo pure per lei.
Uniti nella vita, vittime insieme di questa impietosa malattia.

Forse è stato meglio così per Piera. Tenerla lontana dal marito mentre lui stava male, senza poterlo vedere, immaginandosi chissà che cosa, con la paura di perderlo.
Sono stati insieme sino alla fine. Gravi entrambi per i primi giorni, poi il miglioramento graduale di lei e l’ulteriore peggioramento di lui, morto accompagnato da una pietosa e appropriata sedazione palliativa.

La prima volta che rivedo Piera è mattina. Mi devo occupare di lei nel programma della giornata, saturo di impegni, ma non la vedo da quasi un mese, voglio stare un po’ con lei, accanto a lei, non voglio occuparmi solo di lavarla, vestirla e di rilevare i suoi parametri vitali.
Mi siedo sul bordo del letto, il mio volto è coperto dalla mascherina ma i nostri sguardi si incontrano e gli si occhi parlano. Le tengo la mano, spero di trasmetterle il mio calore anche attraverso i guanti.
Le sue prime parole sono per Giovanni, ancora vivo il ricordo della sua sofferenza, di quando nel delirio si lamentava, non la riconosceva e raccontava fatti in cui lei non si ritrovava. Nessun richiamo alla sua di malattia, alla sua di sofferenza. Quando amiamo veramente qualcuno ci annulliamo.
“Sessantasette anni insieme” mi dice. E in quel numero c’è tutto il suo smarrimento, la sua solitudine, il fatto di dover trovare una dimensione di vita nuova, con una voragine da colmare. 
“Nel dolore sei stata fortunata Piera, te lo sei goduto a lungo il tuo Giovanni. Io non lo sono stata così fortunata.” Le accenno al mio lutto, un modo per farle capire che posso comprendere ciò che prova, perché è un dolore che ben conosco.
I ruoli si invertono, ora è lei che consola me, dispiaciuta della giovane età di mio marito, dei nostri figli rimasti senza il padre. Non siamo più la paziente e l’infermiera, ma due donne unite dallo stesso dolore.
Alzandosi dal letto ci avviciniamo alla mensola sopra il televisore, perché vuole mostrarmi una nuova foto incorniciata del marito. “Proprio bella Piera! Ricordiamolo così il tuo Giovanni, sempre sorridente.” Sorride a sua volta e ci avviamo verso il bagno, a passi lenti, il respiro ancora un po’ corto, il tubo dell’ossigeno che intralcia i movimenti. Un’altra giornata senza Giovanni ha inizio.

Il giorno dopo faccio il turno del pomeriggio e alla sera mi occupo ancora di Piera. È già stata preparata da una collega: sta seduta in poltrona, con la camicia da notte e l’immancabile puntata da seguire. “Buon segno”, penso, “riesce a pensare ad altro.”
“Chiamami Piera quando vuoi andare a letto.” Così dicendo esco dalla stanza e proseguo nel mio giro. Le ultime terapie per aiutare un sonno che nei vecchi tarda ad arrivare, gli ultimi controlli: il campanello a portata di mano, l’acqua, il telefono vicino perché i figli “potrebbero” chiamare.

Fuori imperversa un violento temporale, l’anticipo di un’estate tanto attesa, dopo questa assurda primavera. C’è una luce strana nel cielo: da un lato pioggia continua e nuvole nere, dall’altro il sole è riuscito a filtrare tra le nubi e si intravede il cielo azzurro, sempre più ampio. “Ci sono tutte le condizioni per un arcobaleno” penso. Abbandono per un attimo il carrello dei farmaci e mi avvicino alla finestra in fondo al corridoio, che si affaccia verso la luce.

Ed eccolo! Meraviglioso, ampio, una perfetta curva variopinta che nasce sopra i tetti delle case sino ad arrivare alla montagna opposta, non ne vedevo di così belli da anni.
Mi affretto verso la stanza di Piera. “Piera, lascia perdere Un posto al sole e vieni con me!”
Sarà l’urgenza gioiosa della mia voce che non ammette repliche a convincerla a seguirmi senza fare domande, o la curiosità, ancora viva in lei, per le sorprese della vita.
A passo svelto nonostante un leggero affanno, sostenuta dal mio braccio ed appoggiata al fido deambulatore, raggiungiamo insieme la finestra sull’arcobaleno.
“Guarda Piera che incanto!”
Il suo volto si illumina, sorride mostrando una bocca sdentata, ma che dimostra tutta la magia di questo momento. “Che bello! Quanto tempo è passato dall’ultimo arcobaleno che ho visto…”
Ci fermiamo ad ammirarlo insieme, il mio braccio attorno alle sue spalle, in silenzio. È un arcobaleno generoso, rimane a lungo nel cielo, forse siamo noi a trattenerlo con la nostra gioia nel contemplarlo.
Guardo il suo sorriso e dimentico la stanchezza della giornata, la pena di queste settimane di lavoro senza sosta, la spossatezza fisica ma soprattutto dello spirito, per tutte le persone che non ce l’hanno fatta.

Torniamo in camera. Piera è stanca, è tempo di andare a letto, ma prima di spegnere la luce mi ringrazia per questo momento.

Questa sera sono un’infermiera felice, appagata per aver somministrato un arcobaleno.